Cosa può fare il 5G nelle nostre vite? La visione della Commissione Europea

…… da  redazione TECH  ECONOMY

 

Entro il 2020 ci sarà più di 30 volte il traffico internet mobile del 2010. Ma sarà un traffico diverso rispetto ad oggi, caratterizzato dall’esplosione non più solo di tablet e smartphone ma da miliardi di oggetti connessi a dare vita al cosiddetto Internet of Things, o meglio ancora, Internet of Everything.

 

Un volume immenso di connessioni che avrà bisogno di una “tecnologia più efficiente e onnipresente per trasportare il traffico dati“: il .  Dopo le dichiarazioni di Neelie Kroes a Barcellona in cui il Vice Presidente della Commissione Europea responsabile per l’Agenda Digitale ha sottolineato l’importanza del 5G per la competitività mondiale dell’Europa, la stessa Commissione europea ha diffuso la sua  visone, accompagnata da una infografica che ripercorre l’evoluzione delle comunicazioni mobili dal 1991 al prossimo 2030, su cosa il 5G possa fare per tutti noi.

 

  • eHealth: la telechirurgia  ha fatto notizia nel 2001, quando la prima procedura chirurgica transatlantica a distanza avvenne tra New York City e Strasburgo: comandi innescati negli Stati Uniti sono stati sotto il controllo di dispositivi chirurgici in Francia, con qualche piccolo ritardo. Il 5G renderà questo scenario molto più facile e preciso. La specificità del 5G renderà, ad esempio, il tempo di risposta dei comandi a distanza vicino allo zero e fornirà al professionista con grande comodità e precisione. Sempre più spesso nel prossimo futuro  un paziente che ha bisogno di un intervento urgente o specifico potrebbe essere gestito da un professionista che non è in sala operatoria fisicamente.
  • Domotica: le case futuro saranno piene di dispositivi collegati, sarà l’epoca dell’Internet nelle cose. Non solo verranno fornite informazioni sull’ambiente ma si moltiplicheranno le connessioni tra i device. Un termostato intelligente, ad esempio, potrà ”parlare” a un rilevatore di fumo in modo che le informazioni combinate siano in grado di fornire informazioni più affidabili in caso di incendio. Nel caso in cui nessuno sia presente questa informazione potrà essere usata per allertare i soccorsi. “Le case– spiegano dalla Commissione – sono destinate a diventare enormi fonti di informazioni e dati saranno trasferiti ai dispositivi mobili per il monitoraggio remoto, controllo ed eventuale decisione. Il 5G è in grado di supportare tali scenari domestici collegati e abbatteranno i costi del servizio”.
  • Trasporti sicuri: i veicoli diventano più sicuri grazie all’integrazione delle e saranno presto in grado di comunicare con il mondo esterno, sul modello di quanto è stato già sperimentato in America. Ma per fare questo c’è bisogno di trasmissioni istantanee e di grande portata che non è possibile con le reti attuali.
  • Smart grids: le utility faranno sempre più affidamento sulla comunicazione senza fili per sostenere le loro attività. Spesso in zone rurali o remote  la connettività wireless garantisce un monitoraggio a basso costo e  ancora una volta 5G potrà portare soluzioni in cui i sistemi esistenti non possono.
  • Intrattenimento: con le reti 5G si potranno usare grandi nuove applicazioni anche in luoghi affollati. Si pensi agli stadi, suggeriscono dalla Ue, e alla possibilità di riprodurre e ripetere le fasi interessanti del gioco da diverse angolazioni e con l’alta definizione su cellulari o tablet, grazie al 5G. Oppure, in ambito business, chi ha cercato di connettersi a Internet in una sala conferenze con più di 200 persone ha sperimentato la perdita di connettività a causa dell’instabilità delle reti di accesso WiFi. Grazie a 5G , tali problemi saranno presto parte del passato.
25/02/2014Permalink

La strada per uscire dalla crisi? Fare!

 Massimo Banzi ha creato la scheda Arduino, principale strumento del movimento dei makers. E gli artigiani 2.0 crescono anche in Italia: «Nuova occupazione. Ora, non fra dieci anni»

«I maker rispondono così alla crisi: si impegnano per raggiungere i propri sogni, fanno, creano». Ci eravamo tutti un po’ ingannati, spiega Massimo Banzi. Credevamo che avesse vinto il virtuale, che nel mondo di domani le mani sarebbero servite sempre di meno. Il movimento dei makers, secondo alcuni «la prossima rivoluzione industriale», è lì a dimostrare il contrario. Artigiani 2.0 che hanno rilanciato il concetto di produzione, ma tecnologica e partecipata. A loro, proprio Banzi ha fornito lo strumento di lavoro decisivo: la scheda elettronica Arduino. E negli ultimi tempi, dopo essersi imposto come superstar dell’innovazione negli Stati Untiti, è diventato anche profeta in patria. A ottobre la Maker Faire di Roma ha registrato 35mila visitatori. I FabLab, luoghi di progettazione e creazione condivisa, stanno nascendo un po’ ovunque nello Stivale. E la fondazione Make In Italy, che Banzi ha appena lanciato insieme al giornalista Riccardo Luna e all’imprenditore Carlo De Benedetti, potrà dare ulteriore impulso al movimento: «Si genera nuova occupazione. Ora, non fra dieci anni», dice alla Fonderia dei Talenti.

Un po’ tutti abbiamo sognato di fare gli inventori. Tu come lo sei diventato?

«Sono cresciuto giocando con i circuiti elettronici, ho maneggiato il mio primo saldatore a 12 anni. A Monza, dove sono nato, ho frequentato l’istituto tecnico. Poi mi sono iscritto a Ingegneria, che però ho lasciato per andare a lavorare. Un’esperienza come capo della tecnologia di Seat Ventures, quindi qualche anno come architetto software tra Milano e Londra. Dal 2002 ho iniziato a insegnare all’Interaction Design Institue, la scuola post-laurea che Olivetti e Telecom avevano creato a Ivrea. Ed è proprio lì, tre anni dopo, che è nata Arduino».

Di che cosa si tratta?

«Serviva uno strumento di prototipazione elettronica per gli studenti della scuola, con cui anche persone non esperte di informatica potessero dare corpo ai loro progetti. Così abbiamo creato una piccola scheda elettronica, come quella che si trova in tutti i pc, ma molto economica, 25 dollari, e capace di interagire con il mondo esterno. Con pochissime competenze si può usare Arduino per gestire installazioni artistiche, modellini di aeroplani, e sensori o per connettere gli oggetti alla Rete, rendendoli intelligenti: lampade che si accendono via internet, vasi di fiori che segnalano via sms quando hanno bisogno di acqua, oggetti vintage che possono essere programmati tornando a nuova vita. L’abbiamo chiamata Arduino perché era il nome del bar dove io e gli altri quattro fondatori abbiamo concepito l’idea».

Una democratizzazione della tecnologia?

«L’obiettivo è da subito stato quello di trasformare la tecnologia in uno strumento creativo alla portata di tutti. Prima artisti e i designer, che non conoscevano nulla o quasi di elettronica. Poi qualsiasi aspirante inventore. Anche dopo che abbiamo iniziato a vendere la scheda, il progetto Arduino è rimasto open: chiunque può scaricare gli schemi e utilizzarli sotto licenza Creative Commons. Gli unici elementi protetti sono il nome e il logo».

Oggi le schede Arduino sono centinaia di migliaia, nelle case e nei garage di tutto il mondo. Come è stato possibile?

«La chiave è stata la rete di persone che si è raccolta intorno al progetto. Arduino ha varie anime. Quelle tecniche sono la scheda e il software, anche questo aperto, per programmarla. Ma la parte decisiva sono i valori condivisi da chi la usa. Il desiderio di apprendere facendo, costruendo, scoprendo i processi attraverso la sperimentazione piuttosto che con studi teorici. E la condivisione con la comunità: i maker caricano in Rete i loro progetti, li mettono a disposizione e li discutono con gli altri inventori. La creazione partecipata».

Così Arduino è diventato lo strumento del movimento maker. Si tratta davvero di una rivoluzione industriale?

«Stiamo vivendo una transizione culturale, economica e sociale. Una democratizzazione resa possibile dalla diffusione di internet e dalla condivisione delle conoscenze, che ora si sta trasferendo anche al mondo materiale, degli oggetti. Le stampanti 3D e il crowdfunding allargano la possibilità di creare: il movimento maker porta il do it yourself a un nuovo livello. La possibilità di inventare e prototipare sarà sempre più alla portata di tutti e con strumenti più raffinati si potranno produrre piccole serie di prodotti a prezzi ragionevoli. Certo, continueranno a esistere i colossi industriali. Ma accanto a loro nasceranno migliaia di piccole aziende di nicchia. Arduino rappresenta il cuore tecnologico di molti strumenti utilizzati dai makers, a partire dalle stampanti 3D. Ma soprattutto incarna i valori del movimento».

Che cresce anche in Italia. In fondo, il cuore del made in Italy sono gli oggetti.

«Lo scorso ottobre la Maker Fair di Roma, la prima organizzata in Europa, ha avuto 35mila visitatori. Perché il voler fare è una risposta alla crisi. Il maker cerca di trasformare la propria invenzione in azienda, ma lo fa in forma collaborativa e legata al territorio, non per forza con una logica di profitto. Dopo il primo che abbiamo fondato a Torino, nel 2011, stanno nascendo in tutta Italia dei Fablab, officine di creazione che si riempiono di startup. Ora, non fra dieci anni o sprecando migliaia di euro, come fanno i governi quando investono in innovazione. I makers non chiedono politiche dall’alto, ma uno Stato più efficiente che dia libertà a chi vuole innovare. La Fondazione Make in Italy, che abbiamo lanciato la scorsa settimana con Riccardo Luna e Carlo De Benedetti agirà proprio per rafforzare il movimento nel nostro Paese».

Intel ha iniziato a produrre una scheda, Galileo, compatibile con Arduino, e anch’essa open. La grande multinazionale insegue il piccolo produttore?

«Finalmente una grande società è riuscita a vedere nel mondo dei maker un bacino di potenzialità. L’onda d’urto Intel è grande per noi, abituati a vivere su numero più ristretti. Lavoreremo insieme per realizzare prodotti che mettano a disposizione di creatori e studenti le performance e la scalabilità delle tecnologie Intel. Noi faremo in modo che il loro contributo sia compatibile con lo spirito della comunità. In fondo l’obiettivo è comune: produrre strumenti semplici ed efficaci per sviluppare modi non convenzionali, utili e innovativi di usare la tecnologia».

22/02/2014Permalink

Auto elettriche che forniscono servizi di rete, un mercato in crescita

Mobilità elettrica e smart grid. Nei prossimi 8 anni prevista la vendita di oltre 250mila veicoli elettrici abilitati a fornire servizi di bilanciamento alla rete quando sono in fase di ricarica.

17/02/2014

Auto elettriche che forniscono servizi di rete, un mercato in crescita

Il termine inglese è vehicle-to-grid, in sigla V2G: auto elettriche messe a disposizione della rete come sistemi di accumulo per livellare i picchi e garantire stabilità in un sistema elettrico dominato da fonti non programmabili come sole e vento. La mobilità elettrica da sempre è considerata un ingrediente importante della smart grid, la rete elettrica intelligente necessaria alla transizione energetica. Ora questo scenario sta iniziando a concretizzarsi.

Ssi cominciano infatti a vedere impianti a rinnovabili che usano come accumuli batterie di auto elettriche giunte a fine corsa e soprattutto si preannuncia un mercato in espansione anche per veicoli elettrici predisposti, oltre che per trasportare persone, per fornire servizi di rete quando sono attaccati alla presa: secondo Navigant Research, dal 2013 al 2022 saranno venduti oltre 250mila veicoli di questo tipo, finora usati essenzialmente in progetti pilota, e i ricavi che si avranno fornendo servizi di rete in questo modo passeranno dai 900mila dollari l’anno del 2013 a 190,7 milioni di dollari al 2022.

Partiamo dall’idea più semplice, quella di dare una seconda vita alle batterie delle auto elettriche quando arrivano ad avere prestazioni insufficienti per essere usate sui veicoli. In diversi progetti queste batterie vengono già usate come energy storage al servizio delle rinnovabili non programmabili. La notizia più recente a riguardo è quella del sistema di accumulo realizzato dalla giapponese Sumitomo Corp., in collaborazione con Nissan, al servizio di un parco fotovoltaico da 10 MW vicino ad Osaka, il progetto Osaka Hikari-no Mori: usando 16 batterie a fine vita della Nissan Leaf, si è realizzato un accumulo con potenza 0,6 MW e capacità 0,4 MWh. Facile capire come, in un futuro prossimo in cui la quantità di batterie di auto elettriche giunte alla fine della loro prima vita aumenterà in maniera esponenziale, il loro riutilizzo come batterie stanziali, magari anche nel residenziale, potrebbe avere un grande potenziale nel far scendere il costo dei sistemi di accumulo.

Altro mercato interessante, come anticipavamo, quello del vehicle-to-grid vero e proprio, cioè dei mezzi elettrici predisposti per funzionare come buffer energetico per la rete quando sono in ricarica. Questi veicoli possono fornire servizi di rete, cioè bilanciamento, cambiando la velocità a cui si ricaricano in base alle esigenze del sistema elettrico o addirittura reimmettendo energia in rete in caso di picchi di domanda.

Progetti pilota in questo senso sono in corso da diversi anni (già nel 2009 avevamo parlato di quel che si sta facendo sull’isola danese di Bornholm), ora – riporta Navigant Research – diversi modelli di business che fanno V2G si sono affermati e nella seconda metà del decennio saranno anche i singoli a mettere la loro auto a disposizione della rete. Il mercato, in questo momento assolutamente marginale, è destinato a crescere costantemente: come detto, si prevede che si vendano nei prossimi 8 anni oltre 250mila veicoli abilitati al V2G.

A spingere sono grandi corporation e progetti pubblici: ad esempio il dipartimento per la Difesa Usa ha di recente annunciato un investimento da 20 milioni di dollari per installare entro fine anno 500 veicoli predisposti al V2G, da dislocare presso varie basi in diversi mercati elettrici degli States.

Ovviamente gli ostacoli da superare affinché la diffusione del vehicle-to-grid diventi capillare sono molti. Innanzitutto le regole dei diversi mercati elettrici, che spesso, come accade in Italia, sono piuttosto restrittive nel definire i soggetti abilitati a fornire servizi di bilanciamento. Navigant si aspetta comunque che mercati elettrici con un crescente contributo di fonti non programmabili, come eolico e fotovoltaico, prevedano una forte penetrazione dei veicoli elettrici (vedi Cina) e adottino regole che agevolino il V2G al fine di rendere più efficiente il sistema elettrico.

(Articolo a cura di Qualenergia.it)

19/02/2014Permalink

Social Internet of Everything: una cultura per il futuro connesso che ci attende

 

I social network ci hanno abituato sempre di più a percepirci in uno stato di connessione continua tra noi, a prescindere dai vincoli spaziali. In particolare basta pensare alla crescita d’uso in mobilità di tecnologie che mettono in relazione in modo crescente gli ambienti sociali e il loro rapporto con i dati immateriali. Così, usando una app, siamo in grado di farci consigliare un ristorante che sia stato valutato positivamente da una collettività di utenti nella zona in cui siamo.

 

Ma se per ora il confine comunicativo era tracciato rispetto a contenuti (tendenzialmente) rilasciati volontariamente da azioni dell’utente (fare un commento, mettere un like, decidere di geolocalizzarci in un luogo) il futuro espanderà la relazione fra corpi ed informazioni in modi più complessi che coinvolgeranno le cose e i processi all’interno dei contesti. Modi che dovremo affrontare all’interno delle nostre culture di connessione.

 

Cose connesse alle cose: un framework comune

 

socialLo scenario che ci si prospetta è fatto di 50 miliardi di oggetti che entro il 2020 saranno connessi a Internet. Se siete curiosi di sapere a che punto siamo oggi potete consultare il Connections Counter che in tempo reale vi fornisce il dato stimato. Oggetti che sono sì smartphone e tablet, ma anche parchimetri e strade, scaffali dei supermercati e bestiame – la start up olandese Sparked ha impiantato sensori nell’orecchio di una mucca in grado di inviare i parametri vitali e i movimenti del capo di bestiame via wi-fi.

 

Si tratta di un primo passaggio culturale, quello all’Internet of Things, che vede l’interconnessione di dispositivi intelligenti capaci di comunicare dati in tempo reale in modo da modificare i processi: il sensore su uno scaffale comunica che i pomodori pelati di quella marca sono finiti, quello sulla mucca che il momento del parto probabilmente si avvicina. E’ un primo salto, quello di abituarsi a tenere sotto controllo vecchie variabili in modo nuovo, fare diventare l’interazione con l’intelligenza negli oggetti parte della routine quotidiana.

 

Ci troviamo di fronte qui ad un primo salto che il nuovo paradigma ci richiede: quello di pensare la connessione tra cose come una realtà di riferimento. La sfida non sta tanto nel circondarci di oggetti intelligenti ma che questi sappiano relazionarsi tra loro e per fare questo abbiamo necessità di immaginare e realizzare un framework comune. E’ questa una prima prospettiva dell’Internet of Everything (). Dalla competizione tra imprese produttrici di dispositivi dovremo passare alla collaborazione. La macchina del caffè di una marca dovrà poter comunicare con il nostro orologio da polso di un’altra marca: come consumatori vogliamo che i nostri gadget siano sufficientemente intelligenti da parlarsi tra loro. Ad esempio l’esperienza nascente del consorzio AllSeen Alliance tra brand diversi sembra andare in questa direzione.

 

 “Se sono su Facebook, perché la mia auto non è un mio friend?”

 

Questa battuta di Marc Benioff, CEO di salesforce.com, descrive bene tutto il potere di trasformazione che l’Internet di ogni cosa possiede. Il vero salto culturale lo abbiamo se cominciamo a pensare a come questi oggetti si combinano non solo tra loro ma, in prospettiva più allargata, a reti sociali di persone e ai processi sociali, cioè secondo una cultura di Social Internet of Everythings ().

 

Quindi: fare entrare nella rete delle nostre relazioni sociali connesse una serie di oggetti con cui abbiamo rapporti quotidiani e metterci in relazione attraverso loro. In questo senso la nostra auto o la lavatrice o il nostro cane (i dati che rilasciano e li caratterizzano) come friend tra i friend (altre persone ma anche i loro oggetti), assieme, all’interno dei sei gradi di separazione e come parte di una comunità più estesa.

 

Creare una sensibilità per un social network di persone e cose passa anche dall’idea di mettere in connessione la comunità “dal basso” dell’IoE, così da dare corpo alla realtà grassroot di sviluppatori, utenti finali e makers e, naturalmente, gli oggetti. Come nel progetto theThings.IO, che è, da una parte, un social network dell’IoE che consente agli utenti di aggregare, interagire e riprogrammare i dispositivi connessi, cercando di strutturare un’esperienza coerente della propria rete di oggetti e, dall’altra, uno strutturatore di community IoE.

 

Una rete sociale di oggetti e corpi

 

monitoringUn’ulteriore evoluzione avrà a che fare con l’influenza di una rete di persone e cose connesse sui comportamenti sociali.
Tutti i dispositivi del quantified self e computer sempre più wereable da diventare impercepibili nell’uso (anche se spesso visibili) – pensate alle potenzialità, per ora inespresse, dei Google Glass – metteranno in relazione mole di dati comportamentali e dei vissuti: medie dei nostri battiti cardiaci, nei corridoi dell’ufficio e sotto sforzo durante una corsa, e quantità e tipologia di caffè bevuti, con alert automatici alla rete di friend aziendali che alla macchinetta distributrice del piano domotico ci diranno “ancora un caffè? É il quinto oggi e ieri sera hai faticato a dormire per la tachicardia…”. Esempio risibile, ma pensiamolo esteso ai diversi ambiti della vita quotidiana nei quali rilasciamo e rilasceremo sempre più dati che verranno riorganizzati all’interno di un database relazionale con altri dati delle nostre reti sociali di uomini/oggetti. Dispositivi e oggetti, corpi e reti sociali, saranno sempre più interconnessi attraverso un design dell’esistenza come flussi continui di dati da mettere in relazione.

 

Ripensare il senso dei (Big) dati

 

Per tale motivo la sfida della gestione di Big Data diventerà sempre di più il metro su cui misureremo la nostra capacità di costruire il futuro dell’IoE. Nel bene e nel male. Perché occorrerà dare senso alla relazione del flusso di dati tra oggetti e soggetti in modo da sviluppare dinamiche di analisi e risposte in tempo reale.

 

Le aziende dovranno ripensare il modo in cui raccogliere e analizzare le informazioni. E non solo i decisori avranno bisogno di imparare ed adattarsi a una nuova forma di data intelligence, ma la quantità e il tipo di informazioni prodotte introdurrà nuovi ruoli e richiederà nuove competenze per gli analisti, per chi si occupa di strategia e anche per servizio clienti.

 

Ma più in generale, come società, ci troveremo a ripensare i problemi all’interno della cultura della SIoE. L’inquinamento, ad esempio, come problema di messa in relazione fra comportamenti relativi allo spostamento collettivo nella città e di come riscaldiamo gli ambienti in cui viviamo (per semplificare) attraverso l’acquisizione in tempo reale di dati da ambienti domotici, sensori di rilevazione stradale, segnali elettrici di tigli e platani lungo il percorso, auto intelligenti, agende personali che indicano gli appuntamenti nella città, ecc. Tutto questo non solo al fine di monitorare i tassi di inquinamento ma per poter agire sui comportamenti sociali mettendo in gioco le reti tra persone, ad esempio quelle che abitano in uno stesso palazzo o che fanno in auto lo stesso percorso mattutino senza conoscersi e che potrebbero condividere il passaggio. In un mix tra bisogni dell’individuo e bisogni della società, in un equilibrio problematico tra deriva orwelliana e condivisione partecipata. Un ufficio o un condominio intelligente e i corrispondenti processi di lavoro o della vita quotidiana si scontrano con il livello di trasparenza del flusso di dati persone/cose: quanto l’automatizzazione dei processi e la pressione sociale sui processi si scontreranno fra loro? Sarà la lavatrice intelligente ad attivarsi nei momenti di maggior risparmio energetico o sarà la pressione sociale dei “vicini di dato” ad orientare i nostri comportamenti?

 

Prendersi cura del dato

 

big_dataDiventerà quindi discriminante curarci sempre più di come i nostri dati (del corpo e dei nostri oggetti ed ambienti quotidiani) si lasciano trattare come informazioni e di come verranno messi in relazione, per non tacere dei rischi corrispondenti.

 

Da una parte, quindi, dovremo far crescere la cultura della privacy in una realtà connessa dove trasparenza e visibilità rappresentano un valore. Occorrerà sviluppare maggiore consapevolezza degli utenti connessi e delle possibilità di gestione circa: il diritto a controllare quanto su di sé viene comunicato, il diritto all’inviolabilità personale e il diritto di definire e gestire divulgazione ed occultamento delle informazioni personali, decidendo cosa condividere e quando.

 

Dall’altra dovremo essere consapevoli di come nello stato di interconnessione ogni nodo rappresenta un potenziale vettore di attacco per l’intero sistema: nell’IoE hackerare i dati non avrà solo a che fare con una manipolazione e distruzione di informazioni ma con una manipolazione e distruzione fisica del mondo. Di qui nuove sfide, come ad esempio quella per i produttori di operare attraverso principi di security by design che garantiscano un adattamento online alle minacce da parte dei dispositivi connessi

 

La prospettiva della social IoE ci pone di fronte alla prospettiva di un mutamento di paradigma che non è solo di tipo tecnologico ma che richiede di essere supportato da una cultura adatta: una cultura della connessione che sappia dare risposte in termini di cultura del dato, degli oggetti intelligenti e della sicurezza. L’Internet di ogni cosa è, quindi, prima di tutto, una narrazione sociale da cominciare ad immaginare, per governare il cambiamento consapevomente.

 

 

Giovanni Boccia Artieri

 

 

 

 

Professore ordinario presso la Facoltà di Sociologia dell’Università di Urbino Carlo Bo dove insegna Sociologia dei new media e Comunicazione pubblicitaria e linguaggi mediali e dirige il corso di laurea in Informazione, media, pubblicità e un dottorato in Sociologia della comunicazione e scienze dello spettacolo.
Si occupa delle culture della Rete e delle mutazioni digitali prestando particolare attenzione a come i social media cambiano il nostro modo di essere pubblici, cittadini e consumatori.

 

 

21/01/2014Permalink

WunderBar Is An Internet Of Things Starter Kit For App Developers

European startup relayr, founded in January last year and currently based at the StartupBootcamp accelerator, has kicked off a crowdfunding campaign for a hardware kit for developers aimed at making it easier for them to experiment with building apps for the long-promised Internet of Things.

 

Apps that can notify you when someone opens the office beer fridge, for example, or share temperature data as part of a global network of sensors.

 

Relayr’s answer to simplifying the marriage of software apps and discrete hardware sensors that can be located in all sorts of places is a chocolate box of sensors that developers can wirelessly tap into, and integrate into software developed for the Android, iOS or Node.js platforms.

 

It’s calling this kit the WunderBar — the configuration of which has in fact been designed to look like a bar of chocolate, with seven snap-off-able pieces, and (at certain pledge levels) chunky 3D casings for each to make it easier to stick individual sensor modules where you want them.

 

The aim of the WunderBar is to keep things simple by getting rid of the need for app developers to connect sensors via wires. Relayr is also providing libraries, tutorials and examples to help developers start building apps that make use of the data generated by the sensor hardware.

 

The idea is to free software developers to quickly and easily play around with bits of hardware, allowing them to snap off a section of the WunderBar to use its particular sensors in a location where they want to gather data; no soldering mess, no fuss.

 

“On the hardware level there are a lot of maker-oriented projects out there, but our research shows that app developers struggle when asked to ‘think hardware’,” says relayr co-founder Jackson Bond. “Our Starter kit requires no hardware knowledge to get started — making a really easy-in for the 4 gazillion app developers out there.”

 

Bluetooth Low Energy and wi-fi are used to transfer and upload data from the sensor modules, and there are SDKs and an API to make it easier for developers to plug into the WunderBar hardware. Individual sensor modules contain LEDs, buttons and their own battery.

 

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The bar’s six “smart modules” currently include sensors to monitor temperature, proximity, light, colour, humidity, and movement. A fourth sensor lets you control a home entertainment system with an infra-red transmitter. The sensors the last two modules will contain will be determined during the crowdfunding campaign by a vote.

 

As well as the sensor modules, the WunderBar kit includes a main module with an ARM microprocessor and a Wi-Fi chip, and which talks to the sensor modules via Bluetooth, allowing their data to be relayed from local environmental placement back to relayr’s cloud platform where developers can start playing around with it.

 

The WunderBar isn’t the first hardware sensor starter kit I’ve seen — for instance, there’s the BITalino bio-sensor kit (also from Europe). That kit is aimed at supporting development of medical devices and health tracker apps. But the WunderBar has a less specialist hardware feel, with an eye on helping app developers generally start thinking about how to extend the capabilities and reach of their software with the help of a little extra sensor hardware.

 

“The aim of the WunderBar is for play, experimentation and rapid prototyping,” says Bond. “The WunderBar is not just a bootstrapping product for that, but pretty much embodies how we feel the IoT will grow: by giving developer entrepreneurs access to the right tools to make it easy for them to build the products that we as consumers will want to own.

 

“We are planning to Open Source the PCB layouts and the Firmware, making it easy for hardware developers to take our designs and incorporate them into new products or enhance existing ones. We want  to create a fertile ground for app and hardware developers.”

 

“The hardware startups of today are just a start, given the right tools, bringing products to the IoT market will become comparable to getting an app in the App Store today,” he adds.

 

The WunderBar was priced at $119 for early backers on Dragon Innovation – but the handful of kits at that price have already been snapped up so it’s now $149 or more. The estimated shipping date is May.

 

Relayr has raised 250,000 euro in a friend and family round of funding to date, and is in the process of closing a further 500,000 euro from undisclosed tech investors. It was also pitching for Series A funding in front of 400 investors today, as part of the StartupBootcamp DemoDay.

21/01/2014Permalink

California – Fotovoltaico in ascesa

Fra le varie somme tirate nel 2013 nel campo del fotovoltaico, abbiamo già detto pochi giorni fa che destano particolare soddisfazione per i sostenitori delle energie rinnovabili i risultati ottenuti dagli Stati Uniti. Proviamo a entrare un po’ nel dettaglio.

È stato davvero un anno da ricordare da quelle parti per ciò che concerne i pannelli, e come se non bastasse la situazione, come vedremo tra un attimo, ha dato segnali di ulteriore crescita negli ultimi tre mesi, indizio incoraggiante per l’appena nato 2014.

A lanciare la notizia, come spesso avviene, è NPD Solarbuzz, società esperta nelle rilevazioni di questo genere. Stando ai dati raccolti dai suoi esperti analisti, i nuovi gigawatt installati negli USA nel periodo in esame sono ben 4,2, di cui 1,4 nella sola dirittura finale. Inutile specificare che si tratta di un record e che ci sono tutti  gli elementi per sperare che venga battuto ancora entro il prossimo dicembre.

In termini percentuali, si parla di un’impennata del 15% in confronto al 2012. Ormai il Paese transoceanico può essere considerato il mercato più interessante del globo dopo la vastissima area che racchiude l’Asia e l’Australia. D’altro canto, i progetti messi su in tempi recenti lasciavano presagire un simile picco. Spesso si sono installati enormi parchi, e i lavori di questo tipo hanno costituito l’80% della potenza solare aggiunta.

Comunque, anche il comparto degli impianti sistemati su tetti residenziali e non ha avuto le sue belle soddisfazioni: il 10% in più, cioè 700 megawatt. E poiché la faccenda riguarda, com’è noto, una federazione, può essere interessante andare a vedere quali Stati hanno contribuito maggiormente a questo traguardo. In testa c’è l’occidentale California; seguono il North Carolina, che ha varato parecchie iniziative, e – senza grandi sorprese – il Texas. Podio interessante, che ne dite?

20/01/2014Permalink

Extreme Networks acquista Enterasys Networks | BitMat

Extreme Networks acquista Enterasys Networks | BitMat.

Accordo da 180 milioni pagato in contanti. Si prevede che l’operazione porterà ad un incremento del fatturato
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Extreme Networks ha raggiunto l’accordo di acquisizione di tutte le azioni di Enterasys con una transazione in contanti di 180 milioni di dollari (75 milioni pagati con la copertura del debito mentre la cifra residua verrà coperta dalle disponibilità di cassa).  L’operazione, che si concluderà nel quarto trimestre del 2013, è stata già approvata dai consigli di amministrazione di entrambe le aziende, che continueranno ad operare in modo indipendente fino alla chiusura della transazione.

 

La combinazione tra Extreme Networks ed Enterasys è significativa, perché mette insieme due vendor caratterizzati da punti di forza indirizzati alle aree più critiche del networking: unificazione di reti cablate e wireless nella periferia, core aziendale, data center e cloud“, afferma Zeus Kerravala, analista e presidente di ZK Research. “Grazie all’adozione di software aperto, le imprese possono puntare all’innovazione di prodotto e gli utenti possono trarre vantaggio dall’allargamento delle risorse e dalla maggiore scalabilità della struttura“.

 

A seguito dell’accordo, Extreme Networks supporterà le roadmap di prodotto di entrambe le società e nel giro di due anni è prevista l’integrazione all’interno del sistema operativo ExtremeXOS delle funzionalità aggiuntive presenti nel sistema operativo Enterasys. Obiettivo è infatti quello di creare un solo sistema che offra funzionalità su entrambe le linee di prodotto e progettato per consentire agli utenti di scegliere in modo trasparente la migliore piattaforma per le proprie esigenze.

 

Proprio perché operano in due settori molto simili, si prevede che l’operazione porterà ad una crescita del fatturato della nuova azienda: aumenterà infatti la capacità di investire in ricerca e sviluppo così da accelerare l’innovazione e consentire di portare in modo più rapido tecnologie e prodotti sempre più competitivi sul mercato.

 

 

 

16/09/2013Permalink

How the Internet of Things Changes Everything

Currently in the business world we are witnessing something like the epic collision of two galaxies — a rapid convergence of two very unlike systems that will cause the elements of both to realign. It’s all thanks to the Internet of Things.

If you are not familiar with the term, the Internet of Things refers to a dramatic development in the internet’s function: the fact that, even more than among people, it now enables communication among physical objects. By 2015, according to my own firm’s projections, not only will 75 percent of the world’s population have access to the internet. So will some six billion devices. The fact that there will be a global system of interconnected computer networks, sensors, actuators, and devices all using the internet protocol holds so much potential to change our lives that it is often referred to as the internet’s next generation.

For managers, this development creates challenges both long-term and urgent. They need to envision the valuable new offerings that become possible when the physical world is merged with the virtual world and potentially every physical object can be both intelligent and networked. And, starting now, they must create the organizations and web-based business models that can turn these ideas into reality.

As consumers, we have all had a glimpse of how the relationship between buyer and seller changes when devices are connected to the internet. Nobody these days carries a Sony Walkman and cassettes; instead we carry Apple iPods — and our major access point for music has become the online iTunes Store, also by Apple. The company sells the devices and the music, profiting handsomely from both. In the same way, industrial product buyers are seeing their relationship to equipment manufacturers changed by smart, connected things. In the field of mechanical and plant engineering, consider the advent of predictive maintenance. When a machine is fitted with sensors, it can know what condition it is in and, whenever necessary, initiate its own maintenance.

Clearly, when things are networked, that has an impact on how actual value is produced. In many cases, it is no longer the industrially manufactured product that is the focus, but rather the web-based service that users access through that device. So, for example, we see the Daimler Group investing in mobility services such as car2go, myTaxi, and moovel; GE using what it prefers to call the “Industrial Internet” for mechanical and plant engineering services; LG paving the way to “smart homes” with IP-enabled televisions and home appliances and related services.

A study undertaken by researchers from the Institute of Technology Management at the University of St. Gallen in Switzerland (Service Business Development: Strategies for Value Creation in Manufacturing Firms) concludes that these services are most definitely lucrative for traditional manufacturers. Considering the example of a papermaking machine, they note that the sale of the machine itself generates a margin of around one to three percent, while selling a related service yields five to ten times as much. The ratio is much the same for the sale of rail cars versus related mobility and maintenance services.

For “Old Economy” companies, the mere prospect of remaking traditional products into smart and connected ones is daunting. (My own company, for example, the Bosch Group, produces over half a million things each day across more than 1,500 product categories.) But embedding them into a services-based business model is much more fundamentally challenging. The new models have major impacts on processes at the corporate center such as product management and production and sales planning. And given the dynamism of the net, the innovations will have to come more quickly. In short order at Bosch we have founded Bosch Software Innovations as a new software and systems unit; launched an electromobility service in Singapore; introduced cloud-based security products; an IP-enabled Bosch security camera , and provided customers with an iPhone app for remote access to heating systems. (We also demonstrated ideas about the near-future of networked living at the Consumer Electronics Show (CES) in Las Vegas.)

In many and diverse sectors of the global economy, new web-based business models being hatched for the Internet of Things are bringing together market players who previously had no business dealings with each other. Through partnerships and acquisitions, Old Economy and New Economy (software based) companies are combining complementary strengths so they can move quickly into vast spaces of “blue ocean.” In real time they are having to sort out how they will coordinate their business development efforts with customers and interfaces with other stakeholders.

What we have, then, is a competitive arena full of Old and New Economy companies, all jostling for position and attempting to shape the future. Long-standing producers in traditional industrial fields — whether they make coffee machines, cars, air conditioners, home gym equipment, or shoes — are suddenly not only competing with companies of their own breed; they are also confronting players the likes of which they have never faced before.

Most know that their strategy going forward will have to balance two imperatives. They have to protect the turf they already own — today’s product business — while pursuing growth through service offerings that leverage the fact that the product is in place to offer a richer overall value proposition to customers. (What no traditional manufacturer should conclude is that the Internet of Things is a threat that must be fought off in order to preserve the value of the manufactured product and safeguard the capital tied up in production facilities.) Given the reality of limited resources, this lands many traditional product companies at a crossroads. Every new investment they make can go either to strengthening their product-centric facilities, supply chains, human resources, and brands, or to stretching them into the new territory of higher-margin services. The wisest course, most find, is to make investments in both directions, looking to achieve that magic balance that maximizes margins.

As a result, not only in the marketplace but also within firms, completely contrasting business practices, corporate structures, and cultures are crashing into each other. And indeed, for the Internet of Things to fully emerge, they must collide.

As the New Economy and Old Economy galaxies clash, people tend to anticipate that one will destroy the other — and many would observe that the greater momentum is on the New Economy side. Certainly, many differences will need to be overcome before the Old Economy and the New Economy fit together. (Controlled systems on the one hand are opposed by open communities on the other. One keeps a vigilant eye on scant resources, whereas the other in essence gives its services away for free.) But most likely, the two galaxies will morph — as the Milky Way and Andromeda are expected to do: a new system with new dynamics will be created. In the dance around new centers of gravity, new solar systems of partnership will be formed. The question for you is: in this new cyber-physical galaxy, will your company become a new sun, a planet, a minor moon — or be reduced to stardust?

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Dr. Stefan Ferber is Director for Business Development of the Internet of Things & Services at Bosch Software Innovations GmbH in Germany, the software and system house of Robert Bosch GmbH.

14/09/2013Permalink

Domenica 16 giugno, rinnovabili al 100% e il prezzo dell’elettricità va a zero

Domenica 16 giugno 2013, tra le 14 e le 15, per la prima volta nella storia, il prezzo d’acquisto dell’energia elettrica (PUN) è sceso a zero su tutto il territorio nazionale (vedi sintesi GME). Ciò significa che in quelle due ore energia solare, eolico e idroelettrico hanno prodotto il 100% dell’elettricità italiana (vedi grafico sotto). Se l’evento, in una giornata completamente soleggiata e sufficientemente ventosa, poteva essere probabile nelle regioni meridionali, un po’ sorprende che sia accaduto anche per le aree del centro nord, dove comunque un ruolo determinante lo potrebbero aver giocato anche le buone riserve nei bacini idrici accumulatesi negli scorsi mesi (attendiamo dal GME la struttura dell’offerta della giornata e possibilmente di quelle ore in particolare).

Un fenomeno, quello del prezzo dell’elettricità all’ingrosso a zero, che finora si era verificato solo per alcuni prezzi zonali, ma mai per tutte le zone del paese, portando quindi il Prezzo Unico Nazionale, cioè il PUN, a zero. Un evento simile era stato sfiorato domenica 2 giugno 2013, allorché il prezzo medio minimo orario si attestò a 0,46 €/MWh, peraltro con una domanda inferiore a quella del 16 giugno.

Secondo i dati (a consuntivo) dei fabbisogni orari giornalieri pubblicati da Terna alle ore 14 del 16 giugno la richiesta è stata di 31.199 MW; alle 15 di 30.565 MW.

Un recente studio di Althesys dimostrava come il solo fotovoltaico già nel 2012 aveva spostato i valori delle medie orarie dei prezzi, tanto che oggi il picco di prezzo non coincide più con la massima domanda di elettricità. L’analisi considerava sia i minori prezzi nelle ore solari, stimati in 1.420 milioni di euro (erano 396 milioni del 2011) sia i maggiori prezzi nelle ore non solari, pari a 586 milioni: il peak shaving netto nel 2012 risultava così di 838 milioni di euro.

Un’ulteriore prova di come il crescente contributo delle rinnovabili stia tenendo bassi i prezzi dell’elettricità.

“La capacità di offerta delle rinnovabili in Italia sembra garantire ormai in termini di domanda istantanea una copertura del 100% di rinnovabili in quei momenti in cui il fabbisogno è basso come nelle domeniche primaverili ed estive”, commenta a QualEnergia.it Alessandro Marangoni di Althesys. “Comunque –chiarisce – l’evento istantaneo non può essere preso come riferimento per una gestione oculata del mercato elettrico, che ha bisogno, ora più di prima, di un nuovo market design alla luce di una struttura dell’offerta in profondo mutamento”. Il responsabile della società di consulenza energetica non si è sbilanciato sul risultato del peak shaving per il 2013, ma ci ha detto che, con l’attuale situazione dell’economia, non è affatto escluso che sia maggiore di quegli 838 milioni di euro del 2012.

Per Gianni Silvestrini, direttore scientifico di QualEnergia, “quanto accaduto domenica 16 giugno è un’ulteriore dimostrazione degli effetti della rapida penetrazione delle rinnovabile in Italia, che a maggio hanno addirittura coperto più del 50% della produzione di energia elettrica”. “Oltre a incidere sul risparmio netto in termini di prezzo dell’elettricità e alla riduzione delle emissioni – ha detto Silvestrini – la diffusione delle fonti rinnovabili comporta anche una diminuzione delle importazioni di combustibili fossili, riducendo l’elevato saldo negativo del bilancio energetico nazionale”.

Il Prezzo Unico Nazionale ricordiamo è il prezzo in acquisto dell’energia elettrica che si forma nel mercato elettrico italiano ed è il risultato di aste che coprono la richiesta di energia prevista ora per ora con l’elettricità offerta da vari operatori. Nelle aste si accetta (si dispaccia), prima l’offerta più economica e poi, via via, i “pacchetti” più cari, fino a coprire tutto il fabbisogno. Dato che a determinare il prezzo orario che si applica a tutti gli impianti è la fonte più cara selezionata, la cosiddetta “marginale”, immissioni di energia a basso prezzo, escludendo le fonti più care all’altro estremo, fanno abbassare notevolmente il costo di tutto il pacchetto di offerte.

Le rinnovabili non programmabili, come solare ed eolico, sono offerte a prezzo zero, così da non rischiare di non essere selezionate, ben sapendo da una parte di non avere costi di combustibile da coprire, e dall’altra che non saranno comunque remunerate zero, ma al prezzo determinato dalla fonte marginale. Il loro effetto è quindi quello di far scendere il prezzo dei gruppi di offerte orarie in cui entrano. Domenica, in quelle due ore che resteranno nella Storia del sistema energetico italiano, sul mercato c’erano solo loro: le energie pulite, ed ecco perchè il PUN è caduto a zero.

 

13/09/2013Permalink

Fotovoltaico senza incentivi……quattro conti per un’impresa

Produzione: 1.250 KWh/KWp.

Tipologia utente: impresa.

Consumo annuo: 60.000 KWh.

Percentuale di autoconsumo: 40% (per un’impresa che in genere consuma il giorno,  è davvero bassa, ma va bene così).

Potenza impianto: 60 KWp.

Costo impianto: € 85.500,00 + IVA (10%).

Installando l’impianto, si ha un vantaggio economico annuo pari alla somma dei seguenti fattori:

Contributo in Conto Scambio: € 5.000,00.

Liquidazione eccedenze: € 300,00.

Risparmio in bolletta: € 5.400,00.

Ammortamento (quota annua dedotta dall’imponibile pari al 9% della spesa): € 7.695,00.

Totale: € 18.395,00

In dieci anni ho un vantaggio economico di € 183.950,00.

Dall’undicesmo al ventesimo anno mi resta una quota residua dell’ammortamento pari a € 8.550,00 che andrò poi a sommare al resto.

Tolto l’ammortamento, senza considerare l’aumento del prezzo dell’energia elettrica, mi restano € 10.700,00, che in 10 anni fanno € 107.000,00.

Sommati agli 8.550,00 di prima ho un totale di € 115.550,00.

Sempre tralasciando l’aumento dell’energia elettrica, dal ventunesimo al venticinquesimo anno ho € 10.700,00 che per cinque anni fanno € 53.500,00.

In totale, ho un vantaggio di € 353.000,00 a fronte di un capitale investito di € 94.050,00 (senza considerare il vantaggio IVA).

Di  fronte a certe cifre il fotovoltaico  conviene ad un’impresa anche senza incentivi.

 

02/09/2013Permalink