Social Internet of Everything: una cultura per il futuro connesso che ci attende

 

I social network ci hanno abituato sempre di più a percepirci in uno stato di connessione continua tra noi, a prescindere dai vincoli spaziali. In particolare basta pensare alla crescita d’uso in mobilità di tecnologie che mettono in relazione in modo crescente gli ambienti sociali e il loro rapporto con i dati immateriali. Così, usando una app, siamo in grado di farci consigliare un ristorante che sia stato valutato positivamente da una collettività di utenti nella zona in cui siamo.

 

Ma se per ora il confine comunicativo era tracciato rispetto a contenuti (tendenzialmente) rilasciati volontariamente da azioni dell’utente (fare un commento, mettere un like, decidere di geolocalizzarci in un luogo) il futuro espanderà la relazione fra corpi ed informazioni in modi più complessi che coinvolgeranno le cose e i processi all’interno dei contesti. Modi che dovremo affrontare all’interno delle nostre culture di connessione.

 

Cose connesse alle cose: un framework comune

 

socialLo scenario che ci si prospetta è fatto di 50 miliardi di oggetti che entro il 2020 saranno connessi a Internet. Se siete curiosi di sapere a che punto siamo oggi potete consultare il Connections Counter che in tempo reale vi fornisce il dato stimato. Oggetti che sono sì smartphone e tablet, ma anche parchimetri e strade, scaffali dei supermercati e bestiame – la start up olandese Sparked ha impiantato sensori nell’orecchio di una mucca in grado di inviare i parametri vitali e i movimenti del capo di bestiame via wi-fi.

 

Si tratta di un primo passaggio culturale, quello all’Internet of Things, che vede l’interconnessione di dispositivi intelligenti capaci di comunicare dati in tempo reale in modo da modificare i processi: il sensore su uno scaffale comunica che i pomodori pelati di quella marca sono finiti, quello sulla mucca che il momento del parto probabilmente si avvicina. E’ un primo salto, quello di abituarsi a tenere sotto controllo vecchie variabili in modo nuovo, fare diventare l’interazione con l’intelligenza negli oggetti parte della routine quotidiana.

 

Ci troviamo di fronte qui ad un primo salto che il nuovo paradigma ci richiede: quello di pensare la connessione tra cose come una realtà di riferimento. La sfida non sta tanto nel circondarci di oggetti intelligenti ma che questi sappiano relazionarsi tra loro e per fare questo abbiamo necessità di immaginare e realizzare un framework comune. E’ questa una prima prospettiva dell’Internet of Everything (). Dalla competizione tra imprese produttrici di dispositivi dovremo passare alla collaborazione. La macchina del caffè di una marca dovrà poter comunicare con il nostro orologio da polso di un’altra marca: come consumatori vogliamo che i nostri gadget siano sufficientemente intelligenti da parlarsi tra loro. Ad esempio l’esperienza nascente del consorzio AllSeen Alliance tra brand diversi sembra andare in questa direzione.

 

 “Se sono su Facebook, perché la mia auto non è un mio friend?”

 

Questa battuta di Marc Benioff, CEO di salesforce.com, descrive bene tutto il potere di trasformazione che l’Internet di ogni cosa possiede. Il vero salto culturale lo abbiamo se cominciamo a pensare a come questi oggetti si combinano non solo tra loro ma, in prospettiva più allargata, a reti sociali di persone e ai processi sociali, cioè secondo una cultura di Social Internet of Everythings ().

 

Quindi: fare entrare nella rete delle nostre relazioni sociali connesse una serie di oggetti con cui abbiamo rapporti quotidiani e metterci in relazione attraverso loro. In questo senso la nostra auto o la lavatrice o il nostro cane (i dati che rilasciano e li caratterizzano) come friend tra i friend (altre persone ma anche i loro oggetti), assieme, all’interno dei sei gradi di separazione e come parte di una comunità più estesa.

 

Creare una sensibilità per un social network di persone e cose passa anche dall’idea di mettere in connessione la comunità “dal basso” dell’IoE, così da dare corpo alla realtà grassroot di sviluppatori, utenti finali e makers e, naturalmente, gli oggetti. Come nel progetto theThings.IO, che è, da una parte, un social network dell’IoE che consente agli utenti di aggregare, interagire e riprogrammare i dispositivi connessi, cercando di strutturare un’esperienza coerente della propria rete di oggetti e, dall’altra, uno strutturatore di community IoE.

 

Una rete sociale di oggetti e corpi

 

monitoringUn’ulteriore evoluzione avrà a che fare con l’influenza di una rete di persone e cose connesse sui comportamenti sociali.
Tutti i dispositivi del quantified self e computer sempre più wereable da diventare impercepibili nell’uso (anche se spesso visibili) – pensate alle potenzialità, per ora inespresse, dei Google Glass – metteranno in relazione mole di dati comportamentali e dei vissuti: medie dei nostri battiti cardiaci, nei corridoi dell’ufficio e sotto sforzo durante una corsa, e quantità e tipologia di caffè bevuti, con alert automatici alla rete di friend aziendali che alla macchinetta distributrice del piano domotico ci diranno “ancora un caffè? É il quinto oggi e ieri sera hai faticato a dormire per la tachicardia…”. Esempio risibile, ma pensiamolo esteso ai diversi ambiti della vita quotidiana nei quali rilasciamo e rilasceremo sempre più dati che verranno riorganizzati all’interno di un database relazionale con altri dati delle nostre reti sociali di uomini/oggetti. Dispositivi e oggetti, corpi e reti sociali, saranno sempre più interconnessi attraverso un design dell’esistenza come flussi continui di dati da mettere in relazione.

 

Ripensare il senso dei (Big) dati

 

Per tale motivo la sfida della gestione di Big Data diventerà sempre di più il metro su cui misureremo la nostra capacità di costruire il futuro dell’IoE. Nel bene e nel male. Perché occorrerà dare senso alla relazione del flusso di dati tra oggetti e soggetti in modo da sviluppare dinamiche di analisi e risposte in tempo reale.

 

Le aziende dovranno ripensare il modo in cui raccogliere e analizzare le informazioni. E non solo i decisori avranno bisogno di imparare ed adattarsi a una nuova forma di data intelligence, ma la quantità e il tipo di informazioni prodotte introdurrà nuovi ruoli e richiederà nuove competenze per gli analisti, per chi si occupa di strategia e anche per servizio clienti.

 

Ma più in generale, come società, ci troveremo a ripensare i problemi all’interno della cultura della SIoE. L’inquinamento, ad esempio, come problema di messa in relazione fra comportamenti relativi allo spostamento collettivo nella città e di come riscaldiamo gli ambienti in cui viviamo (per semplificare) attraverso l’acquisizione in tempo reale di dati da ambienti domotici, sensori di rilevazione stradale, segnali elettrici di tigli e platani lungo il percorso, auto intelligenti, agende personali che indicano gli appuntamenti nella città, ecc. Tutto questo non solo al fine di monitorare i tassi di inquinamento ma per poter agire sui comportamenti sociali mettendo in gioco le reti tra persone, ad esempio quelle che abitano in uno stesso palazzo o che fanno in auto lo stesso percorso mattutino senza conoscersi e che potrebbero condividere il passaggio. In un mix tra bisogni dell’individuo e bisogni della società, in un equilibrio problematico tra deriva orwelliana e condivisione partecipata. Un ufficio o un condominio intelligente e i corrispondenti processi di lavoro o della vita quotidiana si scontrano con il livello di trasparenza del flusso di dati persone/cose: quanto l’automatizzazione dei processi e la pressione sociale sui processi si scontreranno fra loro? Sarà la lavatrice intelligente ad attivarsi nei momenti di maggior risparmio energetico o sarà la pressione sociale dei “vicini di dato” ad orientare i nostri comportamenti?

 

Prendersi cura del dato

 

big_dataDiventerà quindi discriminante curarci sempre più di come i nostri dati (del corpo e dei nostri oggetti ed ambienti quotidiani) si lasciano trattare come informazioni e di come verranno messi in relazione, per non tacere dei rischi corrispondenti.

 

Da una parte, quindi, dovremo far crescere la cultura della privacy in una realtà connessa dove trasparenza e visibilità rappresentano un valore. Occorrerà sviluppare maggiore consapevolezza degli utenti connessi e delle possibilità di gestione circa: il diritto a controllare quanto su di sé viene comunicato, il diritto all’inviolabilità personale e il diritto di definire e gestire divulgazione ed occultamento delle informazioni personali, decidendo cosa condividere e quando.

 

Dall’altra dovremo essere consapevoli di come nello stato di interconnessione ogni nodo rappresenta un potenziale vettore di attacco per l’intero sistema: nell’IoE hackerare i dati non avrà solo a che fare con una manipolazione e distruzione di informazioni ma con una manipolazione e distruzione fisica del mondo. Di qui nuove sfide, come ad esempio quella per i produttori di operare attraverso principi di security by design che garantiscano un adattamento online alle minacce da parte dei dispositivi connessi

 

La prospettiva della social IoE ci pone di fronte alla prospettiva di un mutamento di paradigma che non è solo di tipo tecnologico ma che richiede di essere supportato da una cultura adatta: una cultura della connessione che sappia dare risposte in termini di cultura del dato, degli oggetti intelligenti e della sicurezza. L’Internet di ogni cosa è, quindi, prima di tutto, una narrazione sociale da cominciare ad immaginare, per governare il cambiamento consapevomente.

 

 

Giovanni Boccia Artieri

 

 

 

 

Professore ordinario presso la Facoltà di Sociologia dell’Università di Urbino Carlo Bo dove insegna Sociologia dei new media e Comunicazione pubblicitaria e linguaggi mediali e dirige il corso di laurea in Informazione, media, pubblicità e un dottorato in Sociologia della comunicazione e scienze dello spettacolo.
Si occupa delle culture della Rete e delle mutazioni digitali prestando particolare attenzione a come i social media cambiano il nostro modo di essere pubblici, cittadini e consumatori.

 

 

21/01/2014Permalink

WunderBar Is An Internet Of Things Starter Kit For App Developers

European startup relayr, founded in January last year and currently based at the StartupBootcamp accelerator, has kicked off a crowdfunding campaign for a hardware kit for developers aimed at making it easier for them to experiment with building apps for the long-promised Internet of Things.

 

Apps that can notify you when someone opens the office beer fridge, for example, or share temperature data as part of a global network of sensors.

 

Relayr’s answer to simplifying the marriage of software apps and discrete hardware sensors that can be located in all sorts of places is a chocolate box of sensors that developers can wirelessly tap into, and integrate into software developed for the Android, iOS or Node.js platforms.

 

It’s calling this kit the WunderBar — the configuration of which has in fact been designed to look like a bar of chocolate, with seven snap-off-able pieces, and (at certain pledge levels) chunky 3D casings for each to make it easier to stick individual sensor modules where you want them.

 

The aim of the WunderBar is to keep things simple by getting rid of the need for app developers to connect sensors via wires. Relayr is also providing libraries, tutorials and examples to help developers start building apps that make use of the data generated by the sensor hardware.

 

The idea is to free software developers to quickly and easily play around with bits of hardware, allowing them to snap off a section of the WunderBar to use its particular sensors in a location where they want to gather data; no soldering mess, no fuss.

 

“On the hardware level there are a lot of maker-oriented projects out there, but our research shows that app developers struggle when asked to ‘think hardware’,” says relayr co-founder Jackson Bond. “Our Starter kit requires no hardware knowledge to get started — making a really easy-in for the 4 gazillion app developers out there.”

 

Bluetooth Low Energy and wi-fi are used to transfer and upload data from the sensor modules, and there are SDKs and an API to make it easier for developers to plug into the WunderBar hardware. Individual sensor modules contain LEDs, buttons and their own battery.

 

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The bar’s six “smart modules” currently include sensors to monitor temperature, proximity, light, colour, humidity, and movement. A fourth sensor lets you control a home entertainment system with an infra-red transmitter. The sensors the last two modules will contain will be determined during the crowdfunding campaign by a vote.

 

As well as the sensor modules, the WunderBar kit includes a main module with an ARM microprocessor and a Wi-Fi chip, and which talks to the sensor modules via Bluetooth, allowing their data to be relayed from local environmental placement back to relayr’s cloud platform where developers can start playing around with it.

 

The WunderBar isn’t the first hardware sensor starter kit I’ve seen — for instance, there’s the BITalino bio-sensor kit (also from Europe). That kit is aimed at supporting development of medical devices and health tracker apps. But the WunderBar has a less specialist hardware feel, with an eye on helping app developers generally start thinking about how to extend the capabilities and reach of their software with the help of a little extra sensor hardware.

 

“The aim of the WunderBar is for play, experimentation and rapid prototyping,” says Bond. “The WunderBar is not just a bootstrapping product for that, but pretty much embodies how we feel the IoT will grow: by giving developer entrepreneurs access to the right tools to make it easy for them to build the products that we as consumers will want to own.

 

“We are planning to Open Source the PCB layouts and the Firmware, making it easy for hardware developers to take our designs and incorporate them into new products or enhance existing ones. We want  to create a fertile ground for app and hardware developers.”

 

“The hardware startups of today are just a start, given the right tools, bringing products to the IoT market will become comparable to getting an app in the App Store today,” he adds.

 

The WunderBar was priced at $119 for early backers on Dragon Innovation – but the handful of kits at that price have already been snapped up so it’s now $149 or more. The estimated shipping date is May.

 

Relayr has raised 250,000 euro in a friend and family round of funding to date, and is in the process of closing a further 500,000 euro from undisclosed tech investors. It was also pitching for Series A funding in front of 400 investors today, as part of the StartupBootcamp DemoDay.

21/01/2014Permalink

California – Fotovoltaico in ascesa

Fra le varie somme tirate nel 2013 nel campo del fotovoltaico, abbiamo già detto pochi giorni fa che destano particolare soddisfazione per i sostenitori delle energie rinnovabili i risultati ottenuti dagli Stati Uniti. Proviamo a entrare un po’ nel dettaglio.

È stato davvero un anno da ricordare da quelle parti per ciò che concerne i pannelli, e come se non bastasse la situazione, come vedremo tra un attimo, ha dato segnali di ulteriore crescita negli ultimi tre mesi, indizio incoraggiante per l’appena nato 2014.

A lanciare la notizia, come spesso avviene, è NPD Solarbuzz, società esperta nelle rilevazioni di questo genere. Stando ai dati raccolti dai suoi esperti analisti, i nuovi gigawatt installati negli USA nel periodo in esame sono ben 4,2, di cui 1,4 nella sola dirittura finale. Inutile specificare che si tratta di un record e che ci sono tutti  gli elementi per sperare che venga battuto ancora entro il prossimo dicembre.

In termini percentuali, si parla di un’impennata del 15% in confronto al 2012. Ormai il Paese transoceanico può essere considerato il mercato più interessante del globo dopo la vastissima area che racchiude l’Asia e l’Australia. D’altro canto, i progetti messi su in tempi recenti lasciavano presagire un simile picco. Spesso si sono installati enormi parchi, e i lavori di questo tipo hanno costituito l’80% della potenza solare aggiunta.

Comunque, anche il comparto degli impianti sistemati su tetti residenziali e non ha avuto le sue belle soddisfazioni: il 10% in più, cioè 700 megawatt. E poiché la faccenda riguarda, com’è noto, una federazione, può essere interessante andare a vedere quali Stati hanno contribuito maggiormente a questo traguardo. In testa c’è l’occidentale California; seguono il North Carolina, che ha varato parecchie iniziative, e – senza grandi sorprese – il Texas. Podio interessante, che ne dite?

20/01/2014Permalink